La Cina mette fine all'indipendenza del Tibet: Il popolo tibetano ha vissuto per secoli in autonomia sul tetto del mondo, tra spiritualità e lavoro della terra. Un clima di libertà e di quiete infrantosi contro le mire espansionistiche della più grande repubblica socialista di sempre, che con la forza continua a tenere prigioniero quel popolo. Dal punto di vista politico rimane invariata nei secoli la forma di teocrazia che vede al vertice della piramide buddista il Dalai Lama (espressione formata dalla parola mongola dalai, che significa "oceano", e dalla tibetana lama, traducibile con "maestro spirituale", da qui la traduzione più usata di "oceano di saggezza"). Alla sua morte, il Panchen Lama, il Reting Rinpoce e altri monaci qualificati si mettono alla ricerca della sua reincarnazione, guidati da presagi e sogni. Riacquistata l'indipendenza nel 1911 dalla dinastia mancese, il Tibet ritorna dopo la Seconda guerra mondiale nelle mire della Cina, che nel frattempo ha visto cadere il secolare impero sotto la spinta rivoluzionaria socialista e instaurarsi la Repubblica popolare dal 1° ottobre del 1949. Il neo presidente cinese Mao Tse-tung annuncia la volontà di riacquisire al patrimonio della madrepatria alcuni territori, tra cui l'altopiano asiatico. Lo scoppio della Guerra di Corea a giugno del '50 dà il pretesto al governo cinese per dare il via all'occupazione, approfittando del fatto che l'opinione pubblica è distratta dalle vicende coreane. L'invasione avviene il 7 ottobre di quell'anno, con 40mila soldati che superano facilmente la debole resistenza di 8mila tibetani male armati. Al nuovo Dalai Lama, Tenzin Gyatso, viene fatto credere, ingannevolmente, che si porterà avanti una colonizzazione pacifica. Cambiato il nome in Xizang, le autorità di Pechino trasformano il Tibet in una colonia, spingendo migliaia di suoi cittadini a insediarsi lì e imponendo pesanti provvedimenti, tra cui la redistribuzione delle terre e una pesante tassazione sui monasteri. Parallelamente viene condotta una capillare opera di persecuzione nei confronti del clero buddista, allo scopo di annientarne il culto sotto lo sguardo indifferente dell'opinione pubblica internazionale. Ad eccezione dell'India, il resto del mondo considera l'invasione un affare interno alla Repubblica popolare socialista. Esasperata dalle misure punitive e dagli arresti di massa, la popolazione locale finisce per ribellarsi, sostenuta sotto banco dalla CIA. L'epilogo è drammatico: il 28 marzo del 1959 l'esercito cinese reprime nel sangue la ribellione e decreta la fine dell'indipendenza del Tibet, costringendo all'esilio il Dalai Lama. Il bollettino finale parla da solo: 80mila vittime (tra cui donne bambini) e 300mila profughi, accolti in maggioranza dalla vicina India. Nei decenni a seguire si verificano frequenti iniziative di protesta dei monaci buddisti, molti dei quali arrivano all'estremo gesto di darsi fuoco in strada, per protestare contro l'occupazione cinese. Negli stessi anni, Tenzin Gyatso, riconosciuto capo del governo tibetano in esilio, è impegnato a portare nei diversi paesi il messaggio buddista e a sensibilizzare l'opinione pubblica sulle condizioni dei suoi connazionali rifugiati. Per la sua protesta non violenta, nel 1989, gli viene assegnato il Nobel per la Pace. Nel tentativo di riscrivere la storia in maniera propagandistica, la Cina annuncia nel 2009 che il 28 marzo sarà celebrato come "Giorno dell'emancipazione degli schiavi", rivendicando il merito di aver liberato i tibetani dalla schiavitù teocratica, rappresentata dal Dalai Lama. La decisione scatena indignazione e proteste soprattutto tra i monaci buddisti, in centinaia messi agli arresti dall'esercito occupante.
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